IL MUSEO DEL RECUPERANTE Carpanè di San Nazario
Orario di apertura al pubblico:
sabato e domenica, ore 15-18 Visita gruppi su prenotazione, in orario d'ufficio
L’armistizio del 4 novembre 1918 sanciva la fine delle ostilità di quella che venne chiamata la “GRANDE GUERRA”. Lentamente, le armate che per anni avevano dato vita a battaglie sanguinose senza esclusione di colpi, se ne andarono. Le montagne e le pianure rimasero disseminate di cimiteri che raccoglievano i resti di centinaia di migliaia di soldati che su di esse avevano lasciato la giovane vita.
Enormi quantità di materiali “bellici” di ogni genere rimasero abbandonati nelle trincee, negli accampamenti, nei depositi, nei boschi e nei pascoli, tornati finalmente silenziosi.
La ricerca ed il recupero di materiale di particolare interesse, quello cioè che poteva essere nuovamente e a breve tempo riutilizzato (armi, munizioni, esplosivi, ecc.), venne condotta da pochi reparti dell’esercito, incaricati di una bonifica sommaria, portata a termine in luoghi di facile accessibilità per la presenza di strade, teleferiche o altre strutture che ne rendevano agevole il trasporto in pianura.
Nel frattempo, iniziava il dramma del ritorno delle famiglie degli sfollati alla propria terra, dove trovarono solo rovine, pascoli sconvolti dalle granate, boschi sradicati dalla furia dei cannoni. Il primo inverno di pace era alle porte, ma scarseggiava il cibo, il lavoro e, per i soldati che smettevano il “panno grigioverde” per tornare alla normalità, si prospettava un periodo di miseria e povertà senza uguali.
Per venire incontro alle esigenze sia dell’industria italiana, che nello sforzo bellico aveva esaurito le scorte di materie prime, sia dei tanti che, al termine del conflitto, avevano perduto ogni bene, il lavoro, la casa e si trovavano nella povertà più assoluta, negli anni venti il governo emanò un decreto che legittimava il recupero di materiale bellico.
Nacquero così i “recuperanti”, che iniziarono a raccogliere quel che la guerra aveva lasciato in gran quantità: materiali “nobili”, quali il piombo, l’ottone e il rame, che venivano accatastati in posti di stoccaggio temporaneo per poi essere venduti.
Il piombo era ricavato dallo scaricamento dei proiettili shrapnell inesplosi o ancora da sparare ammucchiati nelle riservette delle munizioni (le normali pallette tonde che venivano proiettate sul bersaglio in alternativa alla frammentazione dell'involucro dei proiettili). L'ottone era fornito dai bossoli contenenti la carica di lancio dei proiettili, il rame dalle corone di forzamento poste alla base dei proiettili stessi dai quali si otteneva anche ferro e ghisa.
La ricerca e la raccolta dei residuati bellici produssero un po' alla volta specifiche competenze, personali e di paese: i maschi adulti si dedicavano a scavare per trovare le trincee, i depositi e, dentro essi, i grossi calibri che generalmente venivano disinnescati e tagliati sul posto; bambini/e e ragazzi/e, dagli otto ai quattordici anni, andavano "alla spigola", in cerca delle schegge e dei piccoli calibri; le donne, infine, dovevano provvedere a portare in quota, spesso giornalmente, il cibo per i "recuperanti" e riportare a valle il carico della roba trovata.
L’attività era pesante e pericolosa: in questa prima fase, data l’abbondanza di materiale di ogni genere, molti erano ancora gli ordigni inesplosi, che provocarono numerosi incidenti mortali.
Col passare degli anni si tornò alle occupazioni più consuete: l’agricoltura e la nascente industria tornarono ad occupare la popolazione.
Dopo qualche anno, le mire coloniali del regime fascista, messe alla frusta dalle gravose sanzioni imposte al nostro paese, diedero nuovo impulso all’azione dei recuperanti. La penuria di materie prime scatenò una nuova ondata di bonifica dei campi di battaglia.
Mentre negli anni immediatamente successivi alla guerra l'opera di recupero aveva interessato i soli materiali nobili e di pronto reimpiego (in primo luogo esplosivi, materiale da costruzione, armi per la caccia, rame, ottone, piombo), durante il periodo fascista iniziò il recupero del ferro, che portò, ad esempio al sistematico smantellamento delle opere corazzate, con l’asportazione delle cupole blindate per l’artiglieria, oppure la demolizione di opere difensive in cemento dalle quali venivano tolte le parti metalliche delle strutture portanti, ma soprattutto lo scaricamento delle granate, di ogni calibro e genere, anche al fine di ricavare l'esplosivo contenuto, che veniva poi utilizzato nelle opere di brillamento di cave, ma soprattutto per spaccare macigni e ceppi di legno al fine di ottenere legna da ardere. I proietti potevano essere disinnescati oppure aperti con l'utilizzo di piccole cariche esplosive. Queste operazioni venivano eseguite il più delle volte in modo impeccabile, come del resto era necessario. Due etti di tritolo per aprire i colpi da 149, circa tre chilogrammi per i grossi proiettili da 305. A volte si utilizzava il tritolo ricuperato dai 149 per aprire i 305. Il giusto dosaggio di esplosivo era fondamentale per la riuscita dell'operazione. Così la montagna, che negli anni della guerra aveva accolto nel suo grembo centinaia di morti caduti sotto i colpi dell'avversario o uccisi dal freddo e dalle valanghe, dovette nuovamente assistere alla morte di numerosi di questi “disperati” che, alle prese con gli ordigni bellici, venivano falciati dalle deflagrazioni durante le opere di scaricamento.
La ripresa economica per qualche anno ripose il mestiere nel dimenticatoio, sino a quando, nel corso degli anni settanta e ottanta, cominciò una nuova era.
L’attività dimenticata riprese vita con i nuovi recuperanti che, nutrendosi delle esperienze, dei racconti e della pratica dei vecchi, iniziarono un cammino tracciato dalla passione.
Non più oggetti cercati per essere venduti, ma amorevolmente raccolti per rimanere a testimonianza delle sofferenze quotidiane patite dai soldati dei tanti eserciti impiegati nelle nostre terre. I nuovi recuperanti affinano le loro capacità di ricerca studiando e poi pianificando a tavolino le uscite, grazie alla documentazione storica in loro possesso e a quella consultabile nelle numerose fonti disponibili (archivi storici nazionali ed esteri, diari di reparti o di singoli combattenti di allora, ecc.).
Grazie alla loro passione fioriscono mostre, convegni, nascono musei privati, vengono recuperati siti o manufatti della Grande Guerra, vengono dati alla stampa ogni anno centinaia di libri che trattano l’argomento. Un dibattito frizzante e vivace che coinvolge a tutti i livelli. A questi frutti positivi si affiancano purtroppo anche gli eccessi perpetrati da pochi, che in dispregio di qualsiasi norma di comportamento, spogliano i siti della guerra a scopi meramente commerciali e di lucro personale.
La passione, l’amore per la storia, per la montagna, e la necessità di mantenere viva la memoria di un periodo che ha segnato senza uguali tutte le nostre famiglie, con l’unico scopo di tramandarne la memoria alle giovani generazioni, sono le principali motivazioni per continuare la ricerca di un patrimonio che inesorabilmente sta andando distrutto.
Per ricordare dunque l’epopea dei recuperanti, la Comunità montana del Brenta ha allestito questo museo, il cui nucleo è costituito dalla raccolta di Serafino Gobbo, arricchita da ulteriori pezzi donati da privati e allestito con la preziosa consulenza dell’ “Associazione ricercatori e amici della storia - Marostica”.
<<< MATERIALE FOTO E TESTI DELLA COMUNITA' MONTANA DEL BRENTA>>>
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